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LE BEATITUDINI EVANGELICHE

The Sermon on the Mount Carl Bloch, 1890

LE BEATITUDINI EVANGELICHE

  1. Quante e quali sono le Beatitudini evangeliche?
Le Beatitudini evangeliche sono otto:

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati gli afflitti, perché saranno consolati.

Beati i miti, perché erediteranno la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

  1. Chi sono i poveri in spirito, che Gesù Cristo chiama beati?
I poveri in spirito, secondo il Vangelo, sono quelli che hanno il cuore distaccato dalle ricchezze; ne fanno buon uso, se le posseggono; non le cercano con sollecitudine, se ne sono privi; ne soffrono con rassegnazione la perdita, se loro vengono tolte.
  1. Chi sono gli afflitti, che sono detti beati?
Gli afflitti, che sono detti beati, sono coloro che soffrono rassegnati le tribolazioni, e che si affliggono per i peccati commessi, per i mali e per gli scandali che si vedono nel mondo, per la lontananza dal paradiso e per il pericolo di perderlo.
  1. Chi sono i miti?
I miti sono quelli che trattano il prossimo con dolcezza, e ne soffrono con pazienza i difetti e i torti che da essi ricevono, senza lamentele, risentimenti o vendette.
  1. Chi sono quelli che hanno fame e sete della giustizia?
Quelli che hanno fame e sete della giustizia sono coloro che desiderano ardentemente crescere sempre più nella divina grazia e nell’esercizio delle opere buone e virtuose.
  1. Chi sono i misericordiosi?
I misericordiosi sono quelli che amano in Dio e per amor di Dio il loro prossimo, ne compassionano le miserie sia spirituali, che corporali, e cercano di sollevarlo secondo le loro forze e il loro stato.
  1. Chi sono i puri di cuore?
I puri di cuore sono quelli che non hanno alcun affetto al peccato e ne stanno lontani, e schivano soprattutto ogni sorta di impurità.
  1. Chi sono gli operatori di pace?
Gli operatori di pace sono quelli che conservano la pace col prossimo e con se stessi, e cercano di mettere la pace tra quelli che sono in discordia.
  1. Chi sono i perseguitati per causa della giustizia?
I perseguitati per causa della giustizia sono coloro che sopportano con pazienza le derisioni, i rimproveri e le persecuzioni per causa della fede e della legge di Gesù Cristo.
  1. Che cosa significano i diversi premi promessi da Gesù Cristo nelle Beatitudini?
I diversi premi promessi da Gesù Cristo nelle Beatitudini significano tutti, sotto diversi nomi, la gloria eterna del cielo.
  1. Coloro che seguono le Beatitudini ne ricevono già qualche ricompensa in questa vita?
Sì, certamente, coloro che seguono le Beatitudini ne ricevono già qualche ricompensa anche in questa vita, perché già godono un’interna pace e contentezza, che è principio, benché imperfetto, dell’eterna felicità.
  1. Quelli che seguono le massime del mondo possono dirsi felici?
No, quelli che seguono le massime del mondo non sono felici, perché non hanno la vera pace dell’anima, e corrono pericolo di dannarsi.

 

LE BEATITUDINI: LEGGE FONDAMENTALE DEL CRISTIANESIMO

Le beatitudini sono il codice della vita cristiana, la sintesi del messaggio rivoluzionario che Cristo ha portato al mondo: un messaggio di felicità.
Gesù proclama e realizza un cambiamento più sorprendente di quello di Cana (Gv 2,1-11): la povertà diventa ricchezza, le lacrime gioia.
Egli non segue le vie battute dagli uomini, né suggerisce nuovi mezzi perché la loro affannosa ricerca trovi finalmente la meta. Prende atto del loro bisogno di gioia, lo approva, perché lo ha installato Dio creatore nel loro cuore, ma cambia la segnaletica del percorso, muta radicalmente il valore delle cose, ribalta la mentalità del mondo.
Non si tratta di leggere lo straordinario messaggio delle beatitudini per suscitare in noi uno sterile entusiasmo estetico o un’illusione di facile consolazione. È parola di Dio: È la voce di Dio fatto uomo che si propaga nel mondo e arriva alle anime, ad ogni singola anima… La prima nota che si avverte è un grido quasi polemico, contraddittorio: non indica quel concetto piuttosto comune di ritenere il vangelo come un balsamo lenitivo di ogni afflizione… È ben altro. Ha sì tutta la dolcezza e la capacità di confortarci: ma il vangelo è fuoco, il vangelo è ardimento, è la forza di Dio… Il vangelo ci dice cose che sembrano irreali: Beati i poveri, beati i piangenti, beati i perseguitati, beati quelli che rinunciano alla vendetta, all’uso della forza… Ecco come il vangelo sgombra dai nostri cuori la congerie dei falsi fondamenti delle nostre speranze terrene (Paolo VI).
Quelli che vogliono seguire Gesù Cristo devono essere forti, impegnati, liberi, leali: non possono servire a due padroni, a Dio e a mammona (Mt 6,24).
La vecchia obiezione contro il messaggio del vangelo, secondo cui il cristianesimo sarebbe la religione della rinuncia e della tristezza, nemica della vita e dell’impegno sulla terra, la religione dell’alienazione che impedirebbe ai suoi seguaci la compromissione con i problemi umani e il contributo fattivo alla loro soluzione, è una ben misera obiezione. Coloro che accusano il cristianesimo di alienazione non sanno capire nulla al di fuori del gioco delle passioni e degli interessi, non sanno vedere una spanna più in là dei loro contrasti temporali. Si tratta di un’incomprensione e di un rifiuto aprioristici al cui fondo sta il timore di essere posti in discussione, di venire costretti ad un esame poco lusinghiero per il loro orgoglio, ad un possibile superamento dei loro interessi.
Il vangelo non è contro l’uomo, anzi ne mette in luce la parte migliore, ne esalta le aspirazioni e lo spinge ad una crescita reale e operosa per il miglioramento della sua stessa condizione terrestre. Il vangelo non rende tristi e non toglie le speranze di una perfezione nella vita. Tutt’altro: esso non solo non spegne la felicità, ma la proclama. Tutte le ripresentate voci di Cristo incominciano con la grande parola “Beati”, cioè essere felici; avere gioia e pienezza dell’essere. Il vangelo garantisce la felicità. Ma con due clausole. La prima è che esso cambia la natura della felicità. Questa consiste non nei beni effimeri, ma nel regno di Dio. Quindi: Cercate prima il regno di Dio… e tutte queste cose vi saranno aggiunte. La seconda novità introdotta da Gesù è quella che cambia i modi per raggiungere la felicità. Niente bramosia di ricchezze, niente egoismo, odio, cupidigie.
Bisogna invece contraddire queste tendenze o passioni, istinti, tentazioni. Si deve andare contro corrente, incominciando a rendere degno, paziente e sacro il dolore… Nel rileggere e meditare il discorso delle beatitudini si comprenderà come esso sia il codice della vita cristiana, il principio per dimostrarsi autentici, veramente fedeli, effettivi seguaci di Cristo (Paolo VI).
Le beatitudini non sono un testo da declamare quando si ha voglia di belle frasi: devono penetrare nell’intelletto e nella volontà e trasformare l’esistenza. Viviamo in un mondo dove la povertà non è certo in onore; dove il pianto degli afflitti, la mitezza, la misericordia, la purezza di cuore e cose simili sono ritenute prerogativa degli scemi.
Cristo ha insegnato ad alzare lo sguardo al di là dei limiti del presente. I poveri in spirito oggi possono godere del dono della pace e domani saranno padroni del regno di Dio. Perciò non debbono sentirsi abbandonati e infelici: devono sapere di essere beati. Così gli afflitti, quelli che piangono… Le lacrime non sono lontane da nessuno: il dolore accompagna la vita di ogni uomo. Così ogni uomo può conoscere oggi la beatitudine e la speranza della consolazione che scenderà sul suo cuore tribolato come una carezza della mano di Dio. Piangere è già una beatitudine… Ai suoi poveri, la consolazione Cristo la semina già nell’ora dei singhiozzi, quando il dolore brucia in cima come una candela e l’anima cola in gocce. Il piangere – solo il piangere – ci fa poi misericordiosi, ci fa provare pietà di noi stessi e degli altri; e quando siamo misericordia, finalmente tra Dio e noi non c’è più confine, la nostra acqua si mescola alla sua… E se di Dio vorremo essere chiamati figli, allora arruoliamoci nella schiera dei pacifici: che è una durissima milizia e tutto vuol dire fuor che vivere in pace e disertare la lotta, ma battersi per la madre più minacciata e tremante, la pace (Luigi Santucci).

 

LE BEATITUDINI NELLA VITA DI GESÙ

Quello che Gesù insegnava ai suoi discepoli lo viveva lui per primo.
Egli viveva distaccato da ogni bene materiale e da ogni comodità. Nato povero, visse ancora più povero e morì poverissimo. Le volpi e gli uccelli sono proprietari, lui nullatenente: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo (Mt 8,20). Lui, il padrone di tutte le cose fa una scelta di povertà e di distacco assoluto. S. Paolo scriveva ai Corinzi: Voi conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà (2 Cor 8,9). Gesù è un povero che vuol arricchire spiritualmente gli altri. È felice della sua povertà purché l’umanità possa acquistare più ricchezza d’anima.
Gesù è mite e si attribuisce espressamente questa qualità: Imparate da me che sono mite e umile di cuore (Mt 11,29). Egli non è come gli scribi e i farisei che legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito (Mt 23,4). Presentando il suo messaggio sotto forma di beatitudini, manifesta la sua intenzione di attirare gli uditori alla sua dottrina, piuttosto che opprimerli con prescrizioni da osservare.
Mite e umile di cuore durante la sua vita, conserva la sua dolcezza sulla croce. Oltraggiato non rispondeva con oltraggi e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia (1Pt 2,23). Implora perdono per i responsabili della sua morte, invocando per essi le circostanze attenuanti: Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34).
Sulla croce realizza in modo impressionante la beatitudine degli assetati: Ho sete (Gv 19,28). Egli ha sete fisicamente, ma soprattutto ha sete di maggior giustizia e d’amore nel mondo. Come aveva fame della volontà del Padre (Gv 4,34) così aveva sete di questo regno di grazia che avrebbe trasformato l’umanità. Con la sua fame e la sua sete Gesù ha aperto la via ai nostri buoni desideri, ai desideri di un mondo migliore.
Gesù è puro di cuore. Nel suo cuore non v’è alcuna passione avvilente. La sola passione era di far amare il Padre e di salvare gli uomini.
Aveva una dirittura totale nella condotta, non deviava e non si lasciava fuorviare da alcuna ambizione personale. Viveva nella chiarezza della verità. In lui non è mai penetrata l’ombra della menzogna o la complicità col male. Tuttavia questa rettitudine assoluta non è mai stata durezza, non si è mai tradotta in severità per gli altri.
Gesù è stato misericordioso. Aveva una sincera e profonda pietà per i peccatori: i suoi avversari l’hanno accusato di essere l’amico dei peccatori e di mangiare con loro (Lc 15,2). Egli stesso ci spiega perché questa simpatia per loro era così viva in lui: Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto (Lc 19,10).
Molti episodi del vangelo testimoniano questo amore misericordioso: la samaritana (Gv 4), la donna adultera (Gv 8), la prostituta pentita (Lc 7), il pubblicano Zaccheo (Lc 19)…
Gesù è operatore di pace. Anzi, Egli è la nostra pace (Ef 2,14). Riconciliando gli uomini con Dio, li riconcilia tra loro. Stabilisce la pace nelle relazioni umane. Fornisce il principio di soluzione di tutti i conflitti: l’amore universale, senza limiti, un amore che non si stanca mai di perdonare e che tenta tutte le strade per riconciliare quelli che sono divisi. Nel suo Natale porta la pace agli uomini (Lc 2,14) e la pace sarà nuovamente il dono della sua Pasqua di risurrezione (Gv 20,19-21). Non la pace degli armistizi, dei trattati e dei tira molla della politica, ma la sua pace: Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore (Gv 14,27). La pace che egli dona l’ha conquistata con il suo sacrificio sulla croce.
Gesù è stato afflitto e perseguitato. È lui l’uomo dei dolori annunciato da Isaia (Is 52,13-53,12). Tanto si è occupato di alleviare quelli che soffrivano e di guarire i malati e gli infermi, altrettanto ha accolto le sofferenze fisiche e morali che il Padre gli aveva destinato. La vita di Gesù non è mai stata facile: Tutta la vita di Cristo è stata croce e martirio(Imitazione di Cristo. Libro II Cap. XII,7). Fin dal suo nascere e in tutto il corso della sua esistenza terrena è stato cercato a morte e molestato dagli avversari. Trovò la sua gioia nell’eseguire la volontà del Padre, percorrendo la via della sofferenza.
Tutte le beatitudini hanno trovato in Gesù un modello perfetto. La felicità nascosta nella sua vita terrena si è rivelata in modo definitivo nel trionfo della sua risurrezione.
Egli ci ha mostrato così che la felicità della beatitudine comincia nella vita presente e si svilupperà in pienezza nella vita del mondo che verrà.
 

LA FELICITÀ NELLE BEATITUDINI

Dio ha creato l’uomo per la felicità. Le beatitudini, insegnandoci la via della felicità, ci fanno comprendere che essa viene dall’alto, che è un dono di Dio. L’uomo deve aprirsi a questo dono. Se pretende di conquistare da solo la felicità, si chiude al dono divino e si mette nell’impossibilità di essere felice.
Molti partono alla conquista della felicità, cercano di assicurarsi tutti i mezzi che possono procurare gioia e soddisfazione, si costruiscono sogni incantevoli e sopportano spesso pesanti sacrifici per raggiungere la felicità che intravedono. Ma questa felicità indietreggia sempre davanti alla mano che tenta di afferrarla. E finalmente cadono le illusioni, i miraggi scompaiono: chi si credeva sulla via della felicità si ritrova infelice con un pesante fardello di delusioni e di amarezza. Le costruzioni puramente umane della felicità crollano sempre prima o poi.
L’uomo creato per essere felice, non può conquistare la felicità con le proprie forze perché ha in sé un orientamento verso Dio, è fatto su misura per Dio, non può essere felice che raggiungendo e possedendo Dio. È Dio la felicità dell’uomo. Lui solo può colmargli il cuore. Signore, tu ci hai fatti per te, e il nostro cuore non trova riposo finché non riposa in te (s. Agostino. Confessioni I,1).
Dio non attende lo stato celeste per donarsi all’uomo; offre già il suo amore a coloro che vivono in terra e si dona ad essi nella misura in cui si aprono al suo amore e acconsentono liberamente di riceverlo.
La felicità discende da Dio; non vi è altra sorgente. Questa sorgente è sempre zampillante, la felicità è sempre offerta. Tocca all’uomo accoglierla e non rifiutarla.
La felicità è un dono divino ed è molto differente da ciò che avremmo pensato e desiderato noi. Le beatitudini proclamate da Gesù ci presentano condizioni di felicità che non avremmo mai immaginate. Dio è tutt’altro!: I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie, oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri (Is 55,8-9).
Le beatitudini evangeliche promettono la felicità ai poveri e agli umili, a quelli che soffrono e subiscono persecuzioni: sembrano così poco reali!
La carta della felicità che ci offre il mondo e che governa la condotta di molti uomini e donne è molto diversa, esattamente tutto il contrario:
Beati quelli che guadagnano molto denaro.
Beati quelli che possono appagare le loro passioni.
Beati quelli che non hanno sofferenze e a cui tutto riesce nella vita.
Beati quelli che arrivano ad imporsi, a dominare gli altri.
Beati quelli che fanno quello che vogliono senza ammettere altra regola che la propria volontà.
Beati quelli che afferrano il più possibile di tutto quanto esiste nel mondo.
Beati quelli che mietono successi e sono ammirati, quelli che fanno carriera e diventano delle celebrità.
Beati…
Gesù mostra la falsità di queste beatitudini. Egli proclama quelle vere e invita l’umanità a riflettere e a provare.
Non è vero che la ricchezza procura la felicità. Non è vero che l’asservimento alle passioni rende l’uomo felice. Non è vero che la felicità è riservata a chi ha solo soddisfazioni e nessuna sofferenza. Il dolore c’è per tutti; e nel dolore la felicità può esistere solo per coloro che lo sanno orientare verso Dio.
Non è vero che l’orgoglioso, l’egoista e chi cerca di dominare gli altri con l’astuzia o la violenza, trovano in queste cose la felicità che cercano.
Quelli che si lasciano sedurre da false beatitudini hanno un concetto superficiale della felicità: una ubriacatura momentanea che lascia un malessere prolungato.
La felicità che promette Gesù è di un altro genere. È la vera felicità, quella che si radica nel fondo dell’anima. Tra le false beatitudini e quelle vere non vi è solo una differenza nelle vie d’accesso, ma nella stessa natura della felicità.
Il vangelo è una buona notizia che rende felici, ma giustamente questa felicità è offerta a coloro che desiderano Dio e non pongono l’ideale della loro esistenza nelle molteplici gioie terrene.
Le beatitudini sono indirizzate a tutti perché Gesù ha voluto offrire a tutti la felicità, quella vera, quella più alta, quella che il mondo non può intaccare né rapire.
Nella misura in cui gli uomini si aprono alla grazia che è loro data dall’alto possono comprendere il senso delle beatitudini annunciate da Cristo e dedurre conseguenze politiche per la loro vita. I cristiani sono invitati ad ascoltare la parola di Cristo. Potremmo dire che la prima beatitudine consiste nell’ascoltare le beatitudini, per poi viverle realmente:Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica! (Lc 11,28).
La via della felicità non è espressa solo in queste beatitudini, ma in tutto il vangelo: queste ci forniscono le indicazioni essenziali.
Inoltre non dobbiamo dimenticare che sono enunciate altre beatitudini. Le troviamo in ordine sparso nel vangelo: Beato colui che non si scandalizza di me (Mt 11,6); Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono (Mt 13,16); Beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così! (Mt 24,46); Quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti (Lc 14,13-14)…
Dopo aver lavato i piedi agli apostoli e averne spiegato il significato, Gesù aggiunge: Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica (Gv 13,17).
Ha proclamato beati quelli che, pur non avendo visto, avrebbero creduto (Gv 20,29).
Maria, sua madre, è beata perché ha creduto (Lc 1,45), perché ha ascoltato la parola di Dio, e l’ha messa in pratica (Lc 11,27-28).
Vi è ancora una beatitudine pronunciata da Gesù, ma che non si trova tale e quale nei testi evangelici. Ce l’ha conservata il libro degli Atti degli apostoli in un discorso di Paolo:In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!” (At 20,35).
La beatitudine è veramente la caratteristica di tutto l’insegnamento di Gesù, che incoraggia gli uditori al dono di se stessi. Colui che dà gratuitamente, prova una gioia profonda e impagabile, più che se donasse assicurandosi un contraccambio.
Le beatitudini proclamate da Gesù sono reali: la felicità che esse promettono non è lontana; si realizza immediatamente, in ogni situazione in cui si verificano le condizioni stabilite dal Maestro.

 

 

 

BEATI I POVERI

Nella Bibbia vengono chiamati poveri non solamente quelli che si trovano in una precaria situazione economica e sociale, ma anche quelli che rivelano uno speciale atteggiamento religioso in rapporto a Dio e al prossimo. Il discorso della povertà, nella Bibbia, è in stretto rapporto con le condizioni economiche e politiche del popolo d’Israele ed è condizionato dalla credenza, o meno, nella ricompensa ultraterrena che non sempre è stata avvertita nell’AT.
All’epoca dei patriarchi, nel periodo monarchico e, dopo l’esilio, in alcuni circoli sapienziali i beni di questo mondo, in quanto creati da Dio, venivano considerati come supremo valore della vita umana.
Ignorando la retribuzione ultraterrena, i giusti dovevano ricevere la ricompensa delle loro virtù su questa terra. La vita felice consisteva nel godimento dei beni della terra, identificati nella numerosa figliolanza, nell’abbondanza dei greggi e dei prodotti agricoli e nella celebrità popolare.
In quest’ordine di idee, la povertà appare come uno scandalo, giacché essa mette in questione la virtù di colui che è privo di beni. Se la ricchezza è la normale ricompensa della pietà e della fedeltà a Dio, la povertà è una giusta punizione dell’infedeltà verso Dio, cioè del peccato.
Esiste la povertà, o meglio, la miseria dovuta all’empietà, all’incuria personale e all’indolenza: La mano pigra fa impoverire, la mano operosa arricchisce (Pr 10,4); L’ubriacone e il ghiottone impoveriranno e il dormiglione si vestirà di stracci (Pr 23,21). Ma vi sono poveri che sono tali senza loro colpa, per il fatto che sono vittime dell’ingiustizia degli uomini e di un iniquo ordinamento sociale.
Quando le tribù d’Israele divennero sedentarie in Palestina e furono coinvolte nella civiltà urbana, soprattutto al tempo della monarchia, si accentuarono tra i membri dello stesso popolo le disuguaglianze sociali; fu instaurato il sistema del latifondo ed apparve il proletariato rurale; i piccoli dovevano sostenere le spese del lusso e del prestigio del re, mentre ministri, funzionari, commercianti e grandi proprietari accumulavano ingenti fortune.
La legislazione d’Israele cercò di provvedere agli inconvenienti della povertà mediante l’anno della remissione in favore dei debitori e a vantaggio degli schiavi ebrei, la proibizione del prestito ad interesse e l’insistenza relativa al pagamento quotidiano degli operai.
Leggiamo nel libro del Deuteronomio: Dài generosamente al tuo fratello bisognoso e, quando gli darai, il tuo cuore non si rattristi; perché proprio per questo il Signore Dio tuo ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese (Dt 15,10-11).
I profeti si fecero difensori della giustizia sociale lanciando invettive contro i ricchi del loro tempo e difendendo i miseri e i deboli. Denunciando ogni forma di oppressione: il commercio fraudolento, l’accaparramento delle terre, la giustizia venale, la violenza dei capi. Dio ha orrore dei sacrifici e delle offerte dei ricchi le cui mani grondano sangue sottratto ai poveri (Am 2,6-8; Is 1,15-17; Ger 5,28); la vera religione consiste nel rendere giustizia ai poveri e agli afflitti, perché Dio sta dalla loro parte.
In questo contesto si sviluppa il significato spirituale e religioso della povertà. Il povero, privo di beni di questo mondo e spesso indifeso, è cosciente della propria insufficienza ed è portato a porre la sua fiducia in Dio, attendendo da lui la salvezza. La povertà diventa perciò un atteggiamento religioso di fronte a Dio, caratterizzato da sentimenti di fede, di umiltà e di fiducia. Il ricco invece, che confida nei beni terreni ed è cosciente della sua autosufficienza, è portato all’arroganza e all’orgoglio, e perciò alla dimenticanza di Dio, al peccato, all’oppressione dei miseri e all’empietà.
Dopo l’esilio si sviluppa nel popolo ebraico la corrente religiosa degli anawim, cioè dei poveri del Signore, la cui caratteristica è l’umiltà e la fiducia in Dio. Il libro dei salmi è tutto impregnato della pietà dei poveri del Signore.
La vita e l’insegnamento di Gesù si collocano sulla scia della mistica della povertà materiale e spirituale dell’AT e la portano alla perfezione.
La povertà di Gesù non significa mancanza del necessario: egli esercita un mestiere remunerato, il suo gruppo è sostenuto dai sussidi di amici, principalmente dalle donne facoltose della Galilea (Lc 8,3).
Gesù possedeva un abbigliamento più che decoroso (Gv 19,23). Tuttavia egli visse in modo modesto e durante la sua missione apostolica non aveva un luogo stabile dove posare il capo (Mt 8,20). Gesù si circondò di gente umile, di pescatori e di gabellieri; si prese cura dei poveri, dei malati, dei peccatori, dei mendicanti e delle vedove; predicò il vangelo ai poveri, praticò l’elemosina (Gv 13,29), raccomandandola ai suoi discepoli (Lc 11,41). Insegnò a vedere nei poveri l’immagine della sua presenza. L’ultimo giudizio sull’uomo avrà come criterio fondamentale il comportamento avuto nel riguardo dei miseri e dei bisognosi (Mt 25,31-46).
Entrando in Gerusalemme seduto sopra un asino, Gesù mostrò di essere il messia povero e umile, quello annunciato nell’AT; recitando il salmo 22 sulla croce Gesù fece sue le angosce e le speranze del salmista povero, che si abbandona completamente nelle mani del Padre.
La povertà di Gesù equivale a libertà (Mt 8,20), mitezza e umiltà di cuore (Mt 11,29), disponibilità alla volontà del Padre fino all’accettazione cosciente della sofferenza e della morte in croce.
Gesù risveglia nei suoi discepoli lo sforzo di eliminare la sofferenza e l’indigenza attraverso la pratica della giustizia sociale, la distribuzione della ricchezza e l’aiuto tangibile ai meno abbienti.
Gesù insegnò che la ricchezza e gli agi costituiscono un grave pericolo per l’uomo che vuol rispondere alla chiamata di Dio; la ricchezza infatti rischia di ingombrare o bloccare l’uomo nel cammino verso il regno di Dio. Gesù non condanna la ricchezza in se stessa; egli ha avuto degli amici anche tra le persone agiate, come le donne che lo assistevano con i loro beni (Lc 8,2-4), Zaccheo, Levi e tutti coloro che lo invitavano a pranzo. Gesù ha goduto dei beni della terra (Mt 9,10-13; Gv 2,1-11), tanto che il suo comportamento fu contrapposto a quello ascetico di Giovanni Battista (Mt 11,18-19).
Gesù condanna la ricchezza quando essa impedisce l’apertura dell’animo umano verso Dio. La povertà rende l’uomo distaccato dai legami della terra e disponibile a Dio.
In questo ordine di idee si comprende la beatitudine della povertà annunciata da Cristo. Essa occupa il primo posto tra le beatitudini: Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3). I poveri in spirito sono coloro che, interiormente distaccati dai beni della terra, sono convinti della propria insufficienza e del bisogno di Dio e di conseguenza si aprono fiduciosi a lui. Ad essi Gesù promette la ricchezza più preziosa: il regno di Dio.
Gesù propone una grandissima valorizzazione della povertà materiale e spirituale nel contesto del regno di Dio.
Le prime comunità cristiane si sono sforzate di vivere l’ideale della povertà mediante il distacco dai beni di questo mondo, l’accentuazione dello spirito comunitario e l’organizzazione dell’aiuto ai poveri.
La povertà evangelica trova il suo più alto valore nel dono di se stesso che il cristiano fa a Dio e ai fratelli attraverso l’elargizione dei suoi beni e il dono della sua persona. La povertà cristiana è perciò un lievito di fraternità nel mondo: in una parola, essa è una condizione per amare Dio e i fratelli.

 

 

BEATI GLI AFFLITTI

Il dolore in tutte le sue manifestazioni costituisce uno dei problemi maggiori che hanno angosciato e angosciano gli uomini. Ad esso cercano di dare una spiegazione le filosofie e le religioni. Nella Bibbia la sofferenza viene trattata in modo serio e ampio. L’AT ci offre delle soluzioni parziali di questo enigma umano, mentre il NT propone la trasfigurazione del dolore in unione vitale e feconda con la passione redentrice di Cristo.
L’oppressione degli uomini, le guerre, l’esilio, le sventure e i tormenti non dovrebbero esistere, perché l’uomo porta in sé un desiderio incoercibile di benessere, di libertà, di pace e di salute.
In realtà però in ogni tempo e in ogni condizione di vita, l’uomo è colpito da molte tribolazioni. Giobbe confessa che l’uomo nato da donna ha una vita corta e tormenti a sazietà (Gb 14,1). Le cause delle sofferenze sono le più disparate: le malattie, la vecchiaia e la morte sono dei fenomeni connessi con la natura fragile e limitata dell’uomo. Molte sventure sono procurate all’uomo dalle potenze del male. Altre volte la causa dei dolori e delle ingiustizie è la libera decisione dell’uomo che si oppone alla volontà di Dio, cioè il peccato. È al peccato di Adamo e di Eva che la Genesi fa rimontare la condizione miserabile dell’uomo soggetto alla violenza e alla morte.
Tuttavia esiste una fascia di dolore e di sventura che non dipende dalla responsabilità dell’uomo; la morte colpisce all’improvviso nelle più svariate circostanze, senza guardare in faccia a nessuno, buono o cattivo, giovane, vecchio o bambino; le sofferenze degli innocenti restano inspiegabili. Però nessuno degli agenti che direttamente sono la causa del dolore sono sottratti alla potenza e alla provvidenza di Dio. Leggiamo queste parole di Dio nel profeta Isaia: Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura, io, il Signore, compio tutto questo (Is 45,7). E il profeta Amos afferma con audacia: Avviene forse nella città una sventura che non sia causata dal Signore? (Am 3,6). I profeti, i sapienti e i salmisti d’Israele si sono premurati di trovare una risposta al problema del dolore entrando progressivamente nel mistero della sua presenza nel mondo e nella vita degli uomini. Per i sapienti la sofferenza è necessariamente connessa con i limiti della natura umana: ci si deve rassegnare a vivere all’ombra di una minaccia che è sempre incombente (Pr 31,6-7; Qo 9,7; Sir 31,21-23). Il dolore può diventare un fattore positivo nelle mani di Dio, che lo usa come strumento della sua giustizia.
I profeti scoprono nella sofferenza un valore purificante, simile a quello del fuoco che libera il metallo dalle scorie. Sta scritto nel libro del Qoèlet: Accetta quanto ti capita, sii paziente tra le tue vicende dolorose, perché nel fuoco si prova l’oro, e gli uomini graditi nel crogiuolo del dolore (Qo 2,4-6).
In altri passi biblici la sofferenza viene considerata come una correzione paterna inviata da Dio; essa ha un potente valore educativo, perché è la correzione del migliore dei padri. La sofferenza appare come una manifestazione della benevolenza divina verso coloro che il Signore ama. Leggiamo nel libro dei proverbi: Non disprezzare, figlio mio, la disciplina del Signore, e non ti infastidire per la sua correzione, perché il Signore corregge colui che ama, come fa il padre con il figlio prediletto (Pr 3,11-12).
Il dolore è una prova di amore da parte di Dio ed è un mezzo di salvezza per l’uomo. Il libro della Sapienza assicura a coloro che soffrono una vita felice dopo la morte: Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati, e li ha trovati degni di sé; li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia correranno qua e là (Sap 3,5-7).
Nel quarto carme del servo di Jahvè leggiamo: Al Signore è piaciuto prostrarlo con il dolore; poiché offriva se stesso in espiazione, vedrà una discendenza longeva; la volontà del Signore si effettuerà per mezzo suo (Is 53,10).
Gesù fu sensibile alla sofferenza umana, dimostrò compassione e tenerezza verso i malati, i sofferenti e i bisognosi. Molti dei suoi miracoli furono compiuti per liberare gli uomini dalle sofferenze e dalla malattia. Leggiamo nel vangelo secondo Matteo: Gesù percorreva tutte le città e i villaggi insegnando e curando ogni malattia e infermità. E vedendo le folle ne sentì compassione perché erano stanche e abbattute come pecore senza pastore (Mt 9,35-36). Anche ai discepoli inviati in missione temporanea nei villaggi della Palestina, Gesù diede il potere di guarire le infermità. In questo modo Gesù mostrò che il regno di Dio nella sua completa realizzazione esclude ogni dolore e sofferenza umana.
Però Gesù non solo ha lenito le sofferenze umane, ma ha voluto lui stesso provare il dolore fino all’estreme conseguenze. Nell’imminenza della sua passione Gesù è turbato e prova un’angoscia mortale; nel Getsemani la tristezza e lo scoramento lo assalgono in maniera intensissima; è tradito da un amico (Mt 26,49-50), è abbandonato dagli apostoli (Mt 26,56), è rinnegato da Pietro (Lc 22,54-62), oltraggiato dalla folla, dai soldati e dai sommi sacerdoti. Ma proprio attraverso la passione e la morte accettate liberamente e pazientemente, Gesù dà la suprema testimonianza della sua obbedienza al Padre e dell’amore infinito per gli uomini peccatori. Per mezzo della sofferenza e della croce si compie il mistero della liberazione degli uomini, che mediante la fede in Cristo crocifisso e risorto hanno nuovamente accesso al Padre che è nei cieli. Nel disegno di Dio esiste un nesso inscindibile tra dolore e amore, tra sofferenza e glorificazione, tra umiliazione e esaltazione. Il dolore umano, quando diventa manifestazione di amore e di obbedienza, subisce un processo trasfigurante profondo ed impegnativo.
In questo contesto si può comprendere la beatitudine dell’afflizione: Beati gli afflitti perché saranno consolati (Mt 5,4). Accettata in unione con Cristo crocifisso, la sofferenza diventa sopportabile e dolce perché Cristo stesso diventa il nostro conforto e la nostra consolazione.
Il credente è chiamato a portare ogni giorno la sua croce e a seguire Gesù. Secondo la dottrina dell’apostolo Paolo, le sofferenze e le tribolazioni della vita presente sono un dono, una grazia divina, perché assimilano il credente a Cristo stesso e lo inondano della gioia della vittoria che proviene dalla risurrezione di Gesù. La sofferenza, sopportata con amore, prepara una gloria eterna senza limiti, che supera ogni attesa e ogni intendimento umano: se soffriamo con Cristo, regneremo con lui.
Secondo la concezione cristiana, il dolore, in tutta la sua naturale crudeltà e amarezza, può diventare con la grazia del Signore un poderoso strumento d’amore, di grazia e di apostolato; può divenire sorgente di vita e di gioia. San Paolo scrive ai Colossesi: Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa (Col 1,24). E l’apostolo Pietro: Carissimi, non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi… Se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome… Quelli che soffrono secondo il volere di Dio, si mettano nelle mani del loro Creatore fedele e continuino a fare il bene (1Pt 4,12-19).

 

 

BEATI I MITI

La mitezza secondo la Bibbia non è debolezza d’animo, mollezza di carattere, remissività nell’affrontare gli eventi della vita; essa è invece una tranquillità d’animo, che è frutto della carità e che si manifesta esteriormente in un atteggiamento di totale benevolenza verso gli uomini e di coraggiosa sopportazione di persone o di eventi spiacevoli. Il termine ebraico che indica la mitezza significa anche povertà. Perciò la mitezza include un atteggiamento di povertà spirituale, di pazienza, dolcezza e fiducia in Dio, che esclude la collera, la stizza e l’irritazione.
L’AT celebra con molto fervore la mitezza di Dio che è più incline al perdono che al castigo; anche quando punisce, Dio agisce con moderazione. I salmi soprattutto mettono in rilievo l’immensa bontà di Dio.
Quanto è grande la tua bontà, Signore! La riservi per coloro che ti temono, ne ricolmi chi in te si rifugia davanti agli occhi di tutti (Sal 31,20); Tu sei buono, Signore, e perdoni, sei pieno di misericordia con chi ti invoca (Sal 86,5).
Dio governa l’universo con soavità e tutti gli uomini sono invitati a gustare la sua divina clemenza: Gustate e vedete quanto è buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia(Sal 34,9).
Le parole del Signore, cioè la legge mosaica, sono dolci al palato dei fedeli: I giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti, più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante (Sal 19,10-11).
Anche la sapienza che viene dall’alto possiede la qualità della dolcezza: Mangia, figlio mio, il miele, perché è buono e dolce sarà il favo al tuo palato. Sappi che tale è la sapienza per te (Pr 24,13-14).
Gli uomini pii dell’AT si distinguono per la loro mansuetudine. Di fronte alla prosperità dei malvagi le anime pie rischiano di accalorarsi, di eccitarsi e di rivoltarsi contro Dio. Il salmo 37 invece ci insegna: Non adirarti contro gli empi, non invidiare i malfattori… Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui; non irritarti per chi ha successo, per l’uomo che trama insidie. Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti; faresti del male, poiché i malvagi saranno sterminati, ma chi spera nel Signore possederà la terra… I miti possederanno la terra e godranno di una grande pace.
Secondo il salmista, i miti sono coloro che non si scandalizzano del benessere dei peccatori e sperano in Dio stando in silenzio davanti a lui. I miti che evitano il male e operano il bene osservando le leggi del Signore, sono chiamati giusti e perfetti.
Come splendido modello di dolcezza nell’AT è presentato Mosè. Nel libro dei Numeri si legge: Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra (Nm 12,3). Questo testo allude al fatto che Aronne e Maria, rispettivamente fratello e sorella di Mosè, conducevano una campagna denigratoria contro il fratello per scalzarne l’autorità. Di fronte a queste manovre Mosè rinunciò a difendersi e rimise la sua causa nelle mani del Signore. Allora il Signore intervenne. Convocati i colpevoli presso la tenda del convegno, Dio colpì Maria con la lebbra. Mosè non si vendicò, ma pregò il Signore perché risparmiasse il castigo alla sorella. La mitezza di Mosè è contrassegnata da una profonda fiducia di Dio, da una calma sopportazione dell’offesa e dal perdono completo che lo spinge a intervenire in favore della sorella punita.
Il futuro Messia, il Cristo, si distinguerà per la sua mansuetudine.
Leggiamo nel libro del profeta Zaccaria: Esulta grandemente, o figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio di asina. Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra (Zc 9,9-10). E nel libro del profeta Isaia si dice del futuro Messia: Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta (Is 42,2-3).
Nell’AT la mitezza è presentata come il distintivo della persona veramente religiosa in opposizione all’atteggiamento del superbo e dell’arrogante, che confidando in se stesso e nei mezzi umani, diffida di Dio e opprime i deboli e gli indifesi. Il mite dipende totalmente da Dio, è spiritualmente povero e perciò benigno verso gli uomini, specialmente verso i più deboli. I miti sono gli uomini che piacciono a Dio, come leggiamo nel libro del profeta Isaia: Così dice il Signore:… Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi teme la mia parola (Is 66,1-2).
La suprema manifestazione della mitezza ci è stata data nel NT da Gesù: in lui si sono manifestati la bontà di Dio, nostro salvatore, e il suo amore per gli uomini (Tt 3,4). Gesù compì la missione ricevuta dal Padre nella debolezza e nell’umiltà. Ciò non significa che egli fosse apatico e indifferente all’ipocrisia, alla durezza di cuore, agli scandali e alle profanazioni religiose e morali.
Gesù scacciò i trafficanti del tempio con zelo risoluto, si rattristò per la cecità e la durezza di cuore dei suoi avversari e rivolse loro parole severe. Ma pur smascherando la malvagità degli uomini, Gesù fu sempre il maestro mite e buono. Lui stesso presentò come sua caratteristica la mitezza e l’umiltà di cuore: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore (Mt 11,29).
Matteo ama sottolineare la discrezione e la bontà di Gesù anche in altre circostanze. Ne citiamo una. Nel trionfale ingresso di Gesù a Gerusalemme prima della sua passione, tutti gli evangelisti citano la profezia di Zaccaria: Gesù non avanza su un cavallo che è animale da guerra, ma su un asino, che simboleggia la non violenza, l’umiltà e la dolcezza.
Sullo sfondo dell’AT e dell’esempio di Gesù si può comprendere il profondo significato della beatitudine: Beati i miti, perché possederanno la terra, cioè godranno l’eredità promessa da Dio, la beatitudine celeste nel suo regno.
I seguaci di Gesù sono invitati a imitare la mansuetudine e dolcezza del loro maestro. L’apostolo Paolo scrive ai Colossesi: Rivestitevi dunque, come amati da Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi (Col 3,12-13). E nella lettera agli Efesini scrive: Vi esorto… a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace (Ef 4,1-3).
L’invito alla mitezza ci viene anche dalla prima lettera di Pietro: Siate tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili; non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario rispondete benedicendo; poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione (1Pt 3,8-9).
Le grandi promesse di Dio sono fatte ai miti: quelli che ora sono umili e indulgenti, alla fine saranno i reggitori del mondo.

 

 

BEATI GLI AFFAMATI E GLI ASSETATI DI GIUSTIZIA

Nel vangelo di Matteo il termine giustizia designa una condotta conforme alla volontà di Dio, in altre parole la santità, la perfezione cristiana. Vengono proclamati beati coloro che hanno un vivissimo desiderio della santità: Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati. Gesù ha detto: Se la vostra giustizia (= santità) non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5,20). La norma suprema della morale cristiana è la perfezione stessa del Padre: Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,48).
Gli atti esterni, senza l’adesione del cuore, non sono sufficienti, perché la giustizia ha valore solamente se compiuta con lo scopo di piacere a Dio e solamente a lui.
Il termine giustizia è molto usato sia nell’AT che nel NT. Il termine può indicare sia un attributo di Dio che un atteggiamento dell’uomo.
Dio si manifesta giusto quando opera con misericordia e realizza le sue promesse di salvezza.
La giustizia divina è un attributo per cui Dio agisce con bontà e misericordia verso gli uomini peccatori, concedendo loro il perdono e la grazia che li trasforma in figli di Dio ed eredi della beatitudine celeste e ciò in virtù dei meriti di Cristo.
Un altro aspetto della giustizia biblica è quello che si riferisce ai rapporti vicendevoli tra gli uomini. Nell’AT durante l’epoca monarchica apparvero nella società d’Israele le disuguaglianze sociali, cioè le differenze tra ricchi e poveri, tra violenti e oppressi, tra padroni e schiavi. Questa situazione di ingiustizia fu sentita in Israele come una rottura dell’originario ordine voluto da Dio, come un contrasto col dono che il Signore aveva fatto al popolo, liberandolo dalla schiavitù dell’Egitto per condurlo in un paese prospero e stabilire con lui l’alleanza. I profeti denunciarono con molto vigore la cupidità dei re, l’ingiustizia dei giudici, l’oppressione dei miseri, il lusso dei ricchi (Am 5,7; 6,12; Is 5,7.23; Ger 22,13.15). Le feste religiose e i riti di culto diventano un’abominazione per il Signore, se non sono in rapporto con la pratica della giustizia e del diritto, cioè dell’onestà, della rettitudine, dell’osservanza del giusto ordine sociale.
Il futuro messia è preannunciato come un principe integro, che amministra la giustizia in favore dei miseri e dei non abbienti (Is 9,6; Ger 23,5; Sal 72,1-3).
Al centro della dottrina morale del NT si trova il precetto dell’amore del prossimo, che presuppone l’esercizio della giustizia in rapporto con Dio e con i fratelli. Nella comunità cristiana viene proclamata la totale uguaglianza dei credenti in Cristo, per cui non ha più senso la distinzione tra ricco e povero, tra libero e schiavo.
La giustizia nella sacra scrittura designa dunque l’amoroso atteggiamento di Dio verso gli uomini e l’appropriato atteggiamento degli uomini verso Dio e verso i propri fratelli.

BEATI I MISERICORDIOSI

Uno degli attributi relativi a Dio più frequentemente ricorrenti nella Bibbia, è quello di misericordioso, cioè disposto al perdono, alla comprensione, a riprendere sempre di nuovo il suo dialogo d’amore con l’uomo.
Dio si rivela a Mosè sul monte Sinai, proclamando: Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione (Es 34,6-7). Pur non rinunciando al suo diritto di giudizio e di punizione per gli uomini che non ricambiano il suo amore, la sua misericordia è infinitamente più grande: essa si estende fino a mille generazioni mentre la sua collera arriva alla terza e, al massimo, alla quarta generazione.
Moltissimi salmi esaltano la bontà misericordiosa di Dio. Citiamo solamente il bellissimo salmo 103: Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Egli non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno. Non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe. Come il cielo è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia su quanti lo temono; come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono. Perché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere (Sal 103,8-14).
La storia del popolo d’Israele è la manifestazione della misericordia di Dio lungo i secoli.
Ora, la cosa interessante è che Gesù nella beatitudine della misericordia, esige da noi che abbiamo la stessa capacità di amare, di perdonare e di aiutare tutti quelli che si trovano in necessità, come fa Dio. Anzi, c’è di più: subordina addirittura la concessione della misericordia da parte di Dio alla misericordia che noi sapremo donare agli altri:Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia.
Ma l’uomo come può esercitare la misericordia verso gli altri?
Per trovare delle indicazioni concrete sul modo di esercitare la misericordia verso gli altri basta continuare la lettura del discorso della montagna.
Una prima indicazione ci viene da quella esigenza di giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei e che consiste nella legge dell’amore senza nessuna barriera né di persone né di situazioni.
Un’altra indicazione è quella della riconciliazione con il fratello, che avesse qualcosa contro di noi: riconciliazione che dobbiamo realizzare prima di andare a compiere la nostra offerta all’altare (Mt 5,23-24). Un’ulteriore indicazione ci è data soprattutto nel dovere di amare i nemici come Dio li ama: Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti… Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,43-48).
Dio è misericordioso non perché è indifferente al bene o al male, ma perché sa compatire chi fa il male e attende con pazienza che si converta. Proprio per questo Gesù ci insegna subito dopo a pregare così: Padre nostro… rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,9-12). Dio diventa così il modello e la misura della nostra misericordia.
Non è facile per nessuno essere misericordioso, non è facile per nessuno perdonare chi ci ha offeso, chi ci ha fatto dei torti, chi ci ha ucciso barbaramente genitori o figli: perciò abbiamo bisogno di chiedere nella preghiera al Padre misericordioso la forza di fare misericordia.
Cristo, morendo sulla croce, ha dato l’esempio più grande del perdono radicale ai suoi crocifissori: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34).
La misericordia, però, si manifesta in casi anche più ordinari e frequenti che non quello del perdono dei nemici o dei grandi gesti eccezionali. È la normale convivenza con gli altri che esige capacità d’amore, di benevolenza, di donazione, di comprensione, di sacrificio. Basterebbe pensare alla tentazione costante in cui ci troviamo di giudicare il prossimo, sostituendoci alla sua coscienza per interpretare, a nostra misura, intenzioni segrete, fini, progetti, calcoli, ecc., e tutto in luce negativa e di condanna senza appello.
È proprio questa cattiveria del nostro spirito, che ci rende impietosi verso gli altri, che Gesù intende condannare quando ci dice: Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello (Mt 7,1-5).
Dio si arrende a noi, si adegua alla nostra capacità di amare e di perdonare. Perciò ogni nostro gesto di benevolenza più che agli altri è fatto a noi, perché fa ricadere su di noi la benevolenza del Padre: è facendo misericordia che ci meritiamo misericordia!
Eloquente in questo senso è la grandiosa descrizione del giudizio finale (Mt 25,31-46) in cui il concetto di misericordia viene allargato a tutte le situazioni di bisogno materiale e spirituale in cui venga a trovarsi il nostro prossimo.
Si può dire che il cristiano è costantemente posto nella situazione di dover fare opere di misericordia, nelle quali già ora incontra Cristo che gli ricambia amore e benevolenza.
Anche nel più piccolo dei fratelli è presente misteriosamente Cristo che continua ad aver fame negli affamati e a soffrire in tutti quelli che soffrono. Cristo lo incontriamo ad ogni passo, ad ogni uscio. La beatitudine sta precisamente nell’accoglierlo e nel fargli misericordia. Solo così anche noi otterremo misericordia perché anche noi ci troveremo sicuramente, almeno in alcuni momenti, ad essere nella schiera dei più piccoli tra i fratelli di Cristo; affamati, assetati, bisognosi di qualcosa, ammalati, soli, tanto soli. Se avremo visto il segno di Cristo nei bisognosi, gli altri sapranno vederlo anche in noi: la misericordia che avremo fatta ritornerà, moltiplicata, sopra di noi.
Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia: fra le beatitudini è la più consolante e quella di cui abbiamo maggiormente bisogno. Però è anche la più faticosa perché esige forza d’animo, spirito di amore, di donazione e di perdono, e il coraggio di farsi carico di tutte le pene, le sofferenze, le umiliazioni dei fratelli, per portarle insieme con loro.
È la beatitudine che ci inonda continuamente dell’amore buono e misericordioso di Dio, ma che non ci permette alcun momento di egoismo, di pigrizia e di disimpegno.

BEATI I PURI DI CUORE

È da escludere l’interpretazione più corrente che identifica la purezza di cuore con la castità o, anche con il retto uso della sessualità: tutto questo può anche rientrare nella beatitudine dei puri di cuore, a condizione però di partire da altre e più larghe premesse, che riguardano tutto l’uomo nella sua interiorità e anche nella sua esteriorità.
Chi sono dunque i puri di cuore di cui parla il vangelo secondo Matteo?
Gli studiosi sono d’accordo nel far risalire al salmo 24 l’espressione che stiamo commentando: Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronunzia menzogna, chi non giura a danno del suo prossimo. Otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza. Ecco la generazione che lo cerca, che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe (Sal 24,3-6).
La purezza di cui si parla qui è quella interiore che raggiunge in profondità le intenzioni delle nostre azioni e le fanno essere conformi alla volontà di Dio: la purezza di cuore è la santità autentica. Il cuore puro, innocente, non solo è libero dalla colpa, ma anche dal fascino sempre ritornante della tentazione. E questo può esserci dato come dono solamente da Dio. Infatti il salmista prega così: Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo (Sal 51,12).
Nella Bibbia, il cuore è il centro della vita interiore, dove trovano sede e origine tutte le forze e le funzioni psichiche e spirituali. Il cuore è soprattutto il vero centro dell’uomo, a cui Dio si volge; qui è la radice della vita religiosa, che determina l’atteggiamento morale. È il cuore che rende puro o impuro tutto l’uomo.
Leggiamo nel vangelo secondo Matteo queste parole di Gesù: Ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l’uomo. Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le cose che rendono immondo l’uomo (Mt 15,18-20). San Paolo scrive al vescovo Tito: Tutto è puro per i puri; ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro; sono contaminate la loro mente e la loro coscienza (Tt 1,15). Purezza di cuore quindi vuol dire purezza di mente e di coscienza: avere la coscienza pulita.
Il cuore puro è la coscienza innocente, limpida, trasparente, che riflette la luce del volto di Dio, permeabile e docile al suo messaggio e ai suoi comandamenti.
Beati i puri di cuore perché vedranno Dio. Quando vedranno Dio?
Nel libro dell’Esodo leggiamo queste parole di Dio rivolte a Mosè: Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo (Es 33,20). Quindi il testo di questa beatitudine si riferisce principalmente alla gloria finale, al paradiso.
L’Apocalisse ci descrive con toni esultanti la felicità dei salvati nella Gerusalemme del cielo: Il trono di Dio e dell’Agnello sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno; vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte (Ap 22,3-4).

BEATI GLI OPERATORI DI PACE

Le beatitudini si indirizzano a persone che fanno qualcosa. Gli operatori di pace non sono semplicemente individui sensibili alla miseria altrui, ma individui che fanno opere di misericordia, che soccorrono fattivamente il prossimo. Gli operatori di pace sono coloro che riportano l’unione e la concordia tra le persone disunite.
Per essere operatori di pace bisogna prima di tutto essere pacifici, ossia pacificati con se stessi, perché nessuno può dare ciò che non ha. Tuttavia questa beatitudine pone l’accento sulla forza d’animo e sulla volontà di produrre la pace dove regnano la tensione, la conflittualità, la rivalità, il sospetto e soprattutto la guerra effettiva. Proprio perché pacifico, il discepolo di Cristo è un operatore di pace, un seminatore dell’amore e della pace che ha nel cuore.
La pace perciò è da intendere come frutto dell’amore e della concordia e non come imposizione di ordine da parte di chi ha la forza o anche solo l’autorità.
È Cristo il più grande operatore di pace. Leggiamo nella lettera agli Efesini: Egli (Cristo) è la nostra pace, colui che ha fatto dei due (dei giudei e dei pagani) un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito (Ef 2,14-18). E nella lettera ai Colossesi: Piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli (Col 1,19-20).
È Cristo dunque il più grande operatore di pace. Egli ha pagato questo compito cosmico con una morte violenta.
Il segno più plastico e più efficace della rappacificazione universale è perciò la croce che fino a quel momento era stata solo il segno della violenza e della sopraffazione. Su questa linea pacificatrice si muovono alcune indicazioni del seguito del discorso della montagna, che ad alcuni sono sembrate paradossali, se non addirittura assurde, ma non lo sono se vengono confrontate con quanto Gesù ha effettivamente compiuto. Leggiamo nel vangelo secondo Matteo: Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle (Mt 5,38-42).
Apparentemente ci sembra di trovarci davanti a una capitolazione che potrebbe rendere anche più arrogante l’avversario: in realtà è l’unico modo per dimostrare che la violenza è un non senso e che l’amore, che solo genera la pace, è più produttivo perché realizza addirittura il doppio di quanto il violento potrebbe desiderare: la violenza pretende la tunica, l’amore dà spontaneamente la tunica e aggiunge anche il mantello. La violenza genera altra violenza; l’amore invece arresta la violenza e la demolisce, facendone vedere l’assurdità e la sterile follia.
Perché gli operatori di pace saranno chiamati figli di Dio?
Perché solo la pace vera, quella lasciataci da Cristo (Gv 14,27), quella che nasce dal cuore, è capace di creare l’autentica famiglia di Dio, dove tutti si sentono compresi e amati come figli di Dio e fratelli tra loro.

BEATI I PERSEGUITATI

L’ottava e l’ultima beatitudine è ripetuta due volte. Prima nella solita forma di tutte le altre, alla terza persona: Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,10). Successivamente in una forma amplificata, con la seconda persona plurale, quasi ad interpellare direttamente gli ascoltatori: Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi (Mt 5,11-12).
A chi poteva aver nutrito la strana illusione di potersene stare tranquillo dopo essere diventato cristiano, Gesù dice che il segno più qualificante dell’essere cristiano è la persecuzione. Tutto perciò viene messo di nuovo in movimento. E tutto questo non deve ingenerare tristezza, ma gioia ed esultanza.
È l’esperienza che hanno fatto gli apostoli, secondo il racconto degli Atti: Richiamati gli apostoli, li fecero fustigare e ordinarono loro di non continuare a parlare nel nome di Gesù; quindi li rimisero in libertà. Ma essi se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù (At 5,40-41).
L’apostolo Paolo scrive: Mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte (2Cor 12,10).
Esaminiamo ora più da vicino questa beatitudine. Ci sono tre cose fondamentali che la caratterizzano e la mettono in singolare rapporto con le beatitudini precedenti.
Prima di tutto questo invito alla gioia, espresso con due verbi congiunti tra loro: Rallegratevi ed esultate. Essi vogliono esprimere una gioia molto intensa. Ogni beatitudine è una dichiarazione di felicità e dà vera gioia. Se il povero è dichiarato beato, ciò gli deve procurare gioia. Se invece si rattristasse o sopportasse di mal animo la sua situazione, non sarebbe per nulla beato. E così si dica di tutte le altre beatitudini.
Allora perché solo i perseguitati per causa della giustizia vengono invitati a godere intensamente? Perché nel loro soffrire maturano una grande ricompensa nei cieli: non solo la loro sofferenza non va perduta, ma ripagata abbondantemente nella vita eterna.
Il vero cristiano non ha alcun timore per le persecuzioni che possono raggiungerlo: invece di spaventarsi riprende vigore, invece di intristirsi ne prova grande gioia. Per questo, Gesù, pur preannunciando lotte e persecuzioni ai suoi apostoli, dirà loro di non avere alcun timore: Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella geenna. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia (Mt 10,28-29).
La seconda cosa caratteristica di questa beatitudine è la sua esplicita motivazione cristologica: non basta essere perseguitati, bisogna essere perseguitati a causa di Gesù.
Questo riferimento a Cristo, perché la persecuzione e la sofferenza abbiano la ricompensa per la vita eterna, è costante in tutta la tradizione del NT. L’apostolo Pietro scrive:Carissimi, non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida, o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome (1Pt 4,12-16).
Nel vangelo secondo Giovanni leggiamo queste parole di Gesù: Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato (Gv 15,20-21).
Anche san Giacomo ricorda ai cristiani che le prove sofferte per la fede, devono essere motivo di gioia e di esultanza, perché dilatano gli spazi della speranza e dell’amore:Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla (Gc 1,2-4).
E ancora san Pietro commenta meravigliosamente questa ottava beatitudine quando scrive: Perciò siate ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime (1Pt 1,6-9).
La terza caratteristica di questa beatitudine è il richiamo dell’esempio dei profeti: Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi (Mt 5,12).
È un’ulteriore motivazione che Gesù aggiunge per far accettare ai suoi discepoli questa ingrata beatitudine. È una garanzia in più che Gesù fornisce ai suoi perché non si smarriscano di fronte alla prova. I cristiani sono i profeti dei tempi nuovi e quindi nessuna meraviglia se saranno trattati come quelli dei tempi antichi. È quanto Gesù dice agli apostoli quando li manda in missione: Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli (Mt 10,32-33).
Il profeta deve gridare ad alta voce il suo annuncio, deve esporsi, fare una scelta esplicita per Cristo: questo gli procurerà impopolarità, dileggio e persecuzione.
Rileggendola in profondità, si vede chiaramente che l’ultima beatitudine non riguarda soltanto alcuni momenti della storia della chiesa, né solo alcuni uomini particolari: al contrario essa riguarda la vita normale del cristiano di ogni tempo e a ogni latitudine.
Annunciare Cristo, testimoniarlo nella propria vita, denunciare corruzione, vizi, tradimenti, lassismo morale, ingiustizie, soprusi, violenze, resistendo, se necessario, fino alla morte: tutto questo vuol dire essere profeti scomodi e perciò esposti alla derisione, alla persecuzione e al terrorismo ideologico. Ma non per questo dobbiamo lasciarci spaventare. Al contrario crediamo al comando e alla promessa di Cristo: Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.